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FoodWeek Milano comunicare il cibo con trasparenza

Non servono regole nuove serve applicare quelle esistenti

Di: Gabriella Coronelli

10 Maggio 2017

Categoria: ProfileFood

“Ricordate che le parole hanno un peso e che il loro uso inappropriato è indice di scarsa attenzione nei confronti dell’interlocutore”.
Seth Godin

Lunedì 8 maggio si è tenuto il dibattito “Informazione versus food blogger? Fra giornalismo digitale e pubblicità occulta” l’intento era quello di fare chiarezza sui ruoli degli influencer digitali o meno, dei blogger, dei giornalisti. Che quest’ultima categoria sia andata in “disgrazia” trascinando o trascinati dalle relative testate cartacee, non dipende certamente dai blogger o dagli influencer digitali; il declino è cominciato molto prima.
È molto difficile per chiunque sia responsabile di una testata giornalistica, web o cartacea, scagliare la prima pietra, anzi … mani in tasca consiglierei.
Senza andare indietro fino ai tempi in cui lavoravo in agenzie di PR e assistevo a markette indecenti da parte di giornalisti e direttori che hanno sicuramente contribuito al declino della categoria; parliamo di oggi, del settore food: bene ci sono uffici “marketing” che vendono le copertine – intesa come prima di copertina – delle loro testate ma, naturalmente, non sono identificate come spazio pubblicitario, come previsto dalla norma. Oppure, altro caso tanto grottesco quanto recente: giornalista di una testata partecipa ad un pranzo offerto a giornalisti presso un ristorante milanese. Si congratula con lo chef e la proprietà, fa la sua bella intervista ma, dopo tempo, non pubblica nulla. La proprietaria del ristorante la chiama chiedendo se qualcosa non fosse andato bene, la risposta conferma che tutto è stato eccezionale ma … il direttore ha bloccato la pubblicazione perché la signora SP ha minacciato di annullare i budget pubblicitari dell’azienda di cui è testimonial – manco potesse – se viene pubblicato qualcosa di quel ristorante perché la sua amica chef MC ha in antipatia la proprietà. Dunque, se qui pubblicassi il nome della testata, qualcuno la leggerebbe ancora con fiducia, con la certezza che faccia informazione corretta e trasparente?
Il problema non sono i blogger, la rete, gli influencer, il problema sono gli umani che provincializzano quasi tutto e poi pontificano.

Come ha giustamente fatto notare Francesca Romana Barberini durante l’incontro, sarebbe sufficiente che tutti coloro che pubblicano qualsiasi contenuto, post o articolo, a pagamento lo identificassero chiaramente come “pubblicità”. Anche perché siamo, nell’universo food, allo sbando sui significati: cosa significa influencer? L’argomento l’ho già sviluppato qui 
“Il concetto di “influencer” definisce un processo a doppio senso: vengo influenzato da altre persone nel mio processo di formazione delle opinioni, e influenzo, a mia volta, qualcuno. Stephen Covey la definisce “sfera di influenza”, una tipica capacità della leadership, è una sfera operativa che consiste nella capacità di prendere impegni, di fare promesse e di mantenerli entrambi.
Con questo parametro ben in mente: si crea una sfera di influenza attraverso azioni che confermano promesse fatte …”
A questo link  trovate i riferimenti legislativi che dovremmo applicare tutti, correttamente espressi in un articolo di WIRED.

Chiunque abbia una minima formazione di inbound marketing, content, SEO, conosce benissimo la differenza tra promoter e influencer; l’argomento è stato trattato e ritrattato ampiamente; lo scorso anno durane lo IAB Forum anche Oliver Stone ha ribadito il diritto individuale di “raccontare storie” e di ascoltare, scegliere e respingere, questo principio lo ha motivato a realizzare i suoi lavori più importanti e discussi.
Durante il Festival Internazionale del Giornalismo che si è tenuto a Perugia dal 5 al 9 aprile, Arianna Ciccone, cofondatrice dell’evento, ha ribadito chiaramente la contrarietà dei giornalisti nei confronti di filtri e censure o regolamentazione dei contenuti di social e blog attribuendo ai lettori il diritto e la responsabilità di verificare le fonti e la veridicità dei contenuti; questo in un’ottica di valorizzazione del singolo e rispetto dell’individualità come valore incontestabile contro “la pericolosa tentazione di legiferare sulla verità per contrastare le fake-news, in una presunta era della post-verità” ha affermato Arianna.
L’argomento, quindi, non è prerogativa del settore food, peraltro privo di figure autorevoli liberi di parola – che non facciano markette – lasciamo che il fiume scorra, scegliamo di essere professionisti seri e corretti.

Sono i grandi “attori” della comunicazione globale che potranno fare la differenza; Google, dopo la battaglia contro i contenuti ad-hoc per essere indicizzati a scapito della qualità, ha intrapreso la guerra contro le fake-news. Da una ricerca interna risulta che lo 0,25% del traffico giornaliero ha restituito risultati con contenuti offensivi o ingannevoli. Perciò è stato studiato un nuovo algoritmo che cerca di penalizzare i contenuti fake muovendosi su 2 direttrici: miglioramento del search ranking e strumenti più semplici di feedback da parte degli utenti. Google ha modificato le Linee Guida per i valutatori della Qualità di Ricerca che non cambia l’indicizzazione ma rileva dati sulla pertinenza dei risultati in termini di conformità.
Sono stati applicati cambiamenti nel posizionamento “Combiniamo centinaia di segnali per determinare quali risultati mostrare per una data ricerca, da quanto è recente il contenuto al numero di volte in cui il termine di ricerca compare nella pagina. Abbiamo modificato i segnali per fare emergere le pagine più autorevoli e far retrocedere contenuti di scarsa qualità” ha spiegato l’azienda per voce di Ben Gomes.

Facebook attua una politica dei contenuti controllata da algoritmi e sistemi di qualità interni, la piattaforma ha avuto un’evoluzione tale da essere diventata quasi esclusivamente strumento professionale da gestire con competenza, lasciando che la massa dei nobusiness pubblichi post dalla visibilità estremamente contenuta.
Quando facciamo business con il business di Mark Zuckerberg, il banco vince sempre. Dobbiamo meritare ogni singolo like, view o follower che sia, entrando nelle grazie dell’algoritmo, un risultato precario e per nulla certo. Per ottenere un esito stabile che soddisfi sia il pubblico che l’inserzionista bisogna mettere mano al portafoglio. Anche per costruire il seguito è altrettanto necessario investire.” Afferma, correttamente, Riccardo Scandellari.
Il web, a differenza della carta stampata, è un universo dinamico in continuo divenire; di una rivista posso dire quante copie ne tiro, quante ne distribuisco e quante ne vendo e il dato sarà credibile nel momento in cui è certificato da ente terzo – in Italia è l’ADS – Accertamenti Diffusione Stampa – tanto più i dati del web devono essere certificati, chiunque dovesse fare un’affermazione del tipo “l’# è salito al secondo posto delle tendenze nazionali” vi sta dando un’informazione incompleta manca il dove – Twitter? Instagram? GoogleTrends? – il quando – a che ora? I trend cambiano di minuto in minuto – per quanto? – un minuto? un’ora? dieci ore? – il chi e come documenta il dato.
L’informazione sui social è regolamentata dai social stessi che sono piattaforme private concesse in uso a condizioni gratuite o a pagamento, non esiste la possibilità che altri ne normalizzino l’uso con regole che saranno comunque sempre a beneficio esclusivo di chi le formula. Assistiamo quotidianamente a programmi televisivi, leggiamo giornali, ascoltiamo stazioni radio, che diffondono informazioni non sempre corrette ma abbiamo il libero arbitrio e possiamo esercitarlo scegliendo se accettare o meno l’informazione, se approfondire, se farci influenzare.
Non abbiamo bisogno che produttori, chef, direttori, degustatori, giornalisti, ci dicano cosa e come dobbiamo scrivere o leggere.